XXIV.

La letteratura della seconda metà del Settecento tra illuminismo, neoclassicismo e preromanticismo

1. Caratteri e fasi della letteratura di secondo Settecento

Già nella letteratura della prima metà del Settecento, all’interno della stessa Arcadia, che tuttavia le conteneva in contorni precisi di gusto medio idillico-elegiaco, melodrammatico e miniaturistico-melodico, si sono potute vedere le spinte diverse dell’incipiente sensismo, del rococò e del piú energico classicismo. Questa crescente evoluzione e trasformazione del gusto, che veniva fuori dallo svolgimento dell’Arcadia, s’è potuta documentare in una figura come quella dell’Algarotti. Ma con la seconda metà del secolo questo movimento si fa ripido e vorticoso, stimolato da una parte dalla poetica illuministica, informata ad un rigoglio di idee in cui le nozioni di “natura” e di “ragione” si presentano cariche di riferimenti culturali e filosofici, di impegno combattivo e pratico che si risolve in richiesta di una poesia piú seria, dall’altra dall’acquisizione delle posizioni sensistiche. È proprio su questa base che raggiunge la sua maturazione e prende vigore, in una gradazione di passaggi da Arcadia ad illuminismo (che non nasconde le profonde differenze e anche le rotture che tra l’una e l’altra età si registrano), un nuovo classicismo, un recupero cioè dei classici operato in un orizzonte di modernità, di attualità, di rinnovamento dell’antica perfezione estetica e morale, che piú propriamente sarà detto neoclassicismo, e che s’affaccia una nuova sensibilità, che nasce da un sentimento di crisi interna a quegli stessi ideali, alimentata da una piú malinconica meditazione sulla brevità della vita, da un gusto per esperienze piú varie e mobili, da un’ansia che determina una rete sentimentale piú complessa, che si configura come preromanticismo.

2. Poesia didascalica, satirica e favolistica

Fortemente collegato con le istanze illuministiche di una poesia ammaestratrice e descrittiva, divulgatrice elegante e sensibile di idee e di utili cognizioni, appare il filone della poesia didascalica, cospicuo di opere, anche se con risultati di varia, ma modesta poesia, che troveranno un superamento solo nell’alto e complesso didascalismo della poesia del Parini.

Si potranno comunque ricordare come esempi di tale tendenza i poemetti didascalici di G.B. Roberti (Le fragole e Le perle) o quello sul Baco da seta di Zaccaria Betti, o quello di G.B. Spolverini su La coltivazione del riso, o quello di Bartolomeo Lorenzi, Della coltivazione de’ monti, tutti dedicati a descrivere, con nitida eleganza discorsiva, aspetti della natura e le arti del suo sfruttamento in accordo con nuovi metodi agricoli sollecitati dalle nuove tecniche diffuse dall’illuminismo. O, in un campo piú ideologico e scientifico, si ricorderanno i poemetti del Rezzonico, L’origine delle idee, o quello (piú artisticamente elaborato e raffinato) dello scienziato Lorenzo Mascheroni, Invito a Lesbia Cidonia, che descrive ad una dama colta e gentile i tesori del museo scientifico e dell’orto botanico dell’Università di Pavia. Mentre piú rivolto a un’educazione morale e a una satira dei costumi presenti, alla luce di una saggezza illuministica e bonaria, sarà da considerare il lunghissimo poema di Giancarlo Passeroni, Il Cicerone, che è ispirato da un ideale di misura e di serenità intima, frutto di attività laboriosa e umanitaria, ben consonante con gli ideali medi di una civiltà alacre e fiduciosa nell’umana ragione e portata quindi anche a satireggiare tutte le varie borie delle classi privilegiate e i vari errori dell’egoismo, della prepotenza, della frivolezza.

Allo stesso modo, anche se in diverse forme piú lievemente fantastiche e sorridenti, va considerato in rapporto alla saggezza di un illuminismo medio e prudente l’altro filone caratteristico del secondo Settecento: quello di favole e apologhi in versi (con l’appoggio della favolistica francese e soprattutto delle celebri Fiabe del La Fontaine), che condensa in piú brevi componimenti i risultati di un’acuta esperienza della vita umana e del costume contemporaneo, traendone sentenze ironiche e ammaestratrici, siglate da un brio e da un’eleganza letteraria particolarmente vivi nelle favole dei toscani Lorenzo Pignotti e Luigi Fiacchi detto il Clasio, o del romano Giovanni Gherardo De Rossi.

In genere questa letteratura minore si tiene lontana prudentemente dall’investire con la sua satira obbiettivi piú pericolosi di ordine ideologico, religioso, politico. Ma a tale cautela si sottrae nel suo poema favolistico-satirico, Gli animali parlanti, quel Gian Battista Casti (1724-1803) che in quel poema – sotto il travestimento di uomini in bestie – affrontava, con una carica spesso assai violenta e con notevole capacità di agile e divertente rappresentazione comica, i temi fondamentali della civiltà illuministica piú avanzata: non solo la tirannia delle monarchie assolute, la viltà dei cortigiani, la falsa gloria delle guerre devastatrici e disumane, ma la superstizione e persino dogmi religiosi fondamentali, opponendo la verità e la «santa» ragione ad ogni pregiudizio vecchio e recente e allo stesso stolto orgoglio degli uomini infatuati della loro natura privilegiata e immortale e viceversa cosí facilmente confondibili con gli altri animali, quando gli uomini non esercitino l’acume spregiudicato dell’intelligenza e non vogliano riconoscere i limiti della loro realtà. Del resto il Casti aveva già manifestato il suo gusto satirico, non privo di disinvolta e lucida eleganza (fu anche autore di freschi componimenti poetici di soggetto idillico-erotico, le Anacreontiche), nelle libertine Novelle galanti e in un piú farraginoso poema satirico contro Caterina II di Russia e la sua presunta illuminata saggezza, Il poema Tartaro, mentre quel gusto satirico si colorava piú comicamente nei suoi vivacissimi melodrammi giocosi.

3. La poesia dialettale e Giovanni Meli

All’impulso generale dell’illuminismo nel suo amore per espressioni schiette e naturali di buon senso popolare e per i dialetti appunto come linguaggi piú naturali e popolari si deve anche la forte ripresa della poesia dialettale nel secondo Settecento ad opera di scrittori colti e letterariamente scaltriti, ma che nell’uso del dialetto cercavano un mezzo espressivo coerente ai loro ideali di naturalezza e di schietta saggezza, di amore, spesso assai compiaciuto, per la realtà e gli affetti quotidiani e naturali nonché di una possibilità di satira piú spontanea del costume contemporaneo.

Cosí fiorí (né si dimentichi il precedente del Maggi, scrittore anche di poesia dialettale) una notevole schiera di poeti in dialetto «meneghino» in Lombardia (fra questi piú notevoli Domenico Balestrini e Carl’Antonio Tanzi; né lo stesso Parini disdegnò di esercitarsi anche in dialetto) e vari rimatori veneti adoperarono il loro gentile e melodico dialetto – che trovò alta espressione poetica nelle commedie in veneziano del Goldoni – per poesie amabilmente ironiche (il caso di Francesco Gritti) o per canzonette di tono raffinatamente popolaresco e di soggetto amoroso quali sono soprattutto quelle di Anton Maria Lamberti, celebre autore della popolarissima canzonetta La biondina in gondoleta.

Ma assai piú in alto di questi rimatori (e di altri che si possono trovare in altre regioni d’Italia: non si dimentichi almeno il piemontese Calvo che in dialetto seppe esprimere sia sentimenti campestri assai vigorosi, sia la sua passione ardentemente rivoluzionaria e antiaristocratica) si deve collocare il palermitano Giovanni Meli (1740-1814; medico, vissuto alcuni anni a Cinisi, un piccolo borgo in cui esercitò la sua professione, e quindi a Palermo, prima come medico della buona società, poi professore di chimica all’Università e protagonista della cultura cittadina), la cui poesia è stata a volte esagerata, ma non può certo ridursi solo nelle dimensioni d’un frutto di Arcadia attardata e di una semplice abilità linguistica e ritmica. In realtà il Meli è una personalità ben inquadrabile nel clima del secondo Settecento e in uno sviluppo della cultura e della letteratura siciliane che vengono aprendosi alle nuove idee illuministiche, sicché la stessa tendenza del Meli all’idillio campestre e rusticale si giustifica assai al di là di una semplice e stanca continuazione dei temi arcadici e si alimenta di un nuovo e piú pieno sentimento della materna natura e della felicità dell’uomo che ad essa ritorna, non privo di consonanze con le posizioni della bontà e della felicità dello stato di natura quali furono formulate e diffuse dal Rousseau.

In quest’accordo il Meli riassorbe il suo illuministico ideale umanitario e pacifico, sicché egli contrappone in un suo componimento Omero, che esalta la violenza sotto l’aspetto ingannevole dell’eroismo, e Teocrito, cantore di un’epoca pacifica e felice, che il nuovo poeta intendeva rinnovare con la propria poesia bucolica e idillica, di apparenza arcadica (né certo priva di influenze arcadiche), ma sostanzialmente arricchita da quel sentimento di felicità e libertà naturale in cui vibrano chiari elementi del piú diffuso slancio illuministico e rousseauiano verso una civiltà ragionevole e naturale, verso una saggezza schietta di cui sono alimentate le figure dei pastori e dei contadini che animano le poesie della Buccolica insieme agl’incantevoli aspetti della natura, con i suoi paesaggi, con le sue luci e i suoi colori, con le sue albe luminose e i suoi notturni suggestivi, con lo spettacolo vario delle sue diverse stagioni. E sono questi appunto i temi della Buccolica, che canta le quattro stagioni e il loro vario incanto e in esse, con acuta e freschissima sensibilità e con melodica dolcezza, scopre i piaceri e le emozioni provocate dai paesaggi naturali (e dalle figure schiette che in essi vivono) nel suo animo, non profondo e profondamente meditativo, ma cosí sensibile e capace di rappresentare quelle scene e quelle sensazioni con nitida delicatezza di disegno e di colore e con un fervido slancio ritmico inconfondibili (anche se non sempre costanti e continui), cui il dialetto ben si adatta con le sue fresche risorse di lessico e di movimenti piú spontanei e naturali. E certo il Meli seppe portare il dialetto siciliano ad una capacità espressiva cui contribuisce la sua arte paziente e la sua notevole cultura letteraria, privandolo della sua rozzezza, ma non della sua forza di schiettezza.

Cosí anche nelle Odi e Canzonette dialettali – in cui il Meli tese ad esprimere la sua maggior consonanza con la società galante ed elegante palermitana e la sua maggiore raffinatezza di poeta erotico – non mancano di farsi luce le qualità affermate nella Buccolica, specie in certe odicine, meritatamente celebri (come Lu labbru o La cicala), nelle quali il complimento galante o la sentenza amabile e serena si intrecciano con quadretti eleganti e freschi di scene naturali, in un ritmo piacevole e limpido che già di per sé traduce la letizia pacata e brillante dell’animo poetico del Meli.

Diverso è il caso del poema Don Chisciotti e Sanciu Panza, con il quale il Meli aspirò a costruire un poema filosofico-satirico troppo impegnativo per la sua debole e velleitaria (anche se sincera) capacità di approfondimento ideologico e per la sua natura poetica piú portata a componimenti brevi e idillici. Sicché, dopo quel tentativo, il vecchio poeta sarà riportato piuttosto ad esprimere la sua saggezza, i suoi ideali umanitari e moderati, la sua esperienza della vita e degli uomini, in quelle Favole morali che, mentre spesso scoprono un fondo piú amaro e doloroso, spiccano fra le molte raccolte di favole, già ricordate, per la vivacità di un bestiario (allegorico delle qualità umane) estroso e ricco, per la misura del tono e del ritmo, della voce limpida e melodica piú propria della poesia del Meli.

4. Il teatro del secondo Settecento e Carlo Gozzi

L’interesse per il teatro, già cosí vivo nella prima metà del secolo, non venne meno neppure nel secondo Settecento, da una parte stimolando programmi e discussioni anche in gara con il teatro straniero soprattutto francese, dall’altra concentrandosi in tentativi compiuti in varie direzioni, che, se restano ben lontani dalle realizzazioni goldoniane e alfieriane, tuttavia testimoniano di una vasta tensione al rinnovamento teatrale. Nel campo della tragedia (il “genere” teatrale che rimane piú illustre e difficile), troviamo le opere del gesuita Giovanni Granelli (1703-1778), che portano all’esasperazione i contrasti nascenti dall’esercizio di virtú eroiche, morali e religiose, e quelle, tutte impostate su una disposizione moraleggiante e pedagogica, dell’altro gesuita Saverio Bettinelli, ben altrimenti acuto nella discussione critica dei problemi teatrali. Un poco piú tardi Giovanni Pindemonte (1751-1812) offrirà tragedie intonate al gusto neoclassico in forme grandiosamente scenografiche: tentativi tutti sostanzialmente privi di vera ispirazione poetica, tra cui spicca semmai la lucidità con cui Alfonso Varano costruisce la figura di un tiranno empio, condotto alla rovina dalla sua stessa superbia, nel Giovanni da Giscala. Né piú ricca di risultati è l’abbondantissima produzione di melodrammi seri, un genere molto richiesto per esigenze musicali, malgrado le iniziative di riforma in cui ebbe parte importante Ranieri de’ Calzabigi (1714-1795) rivolte a ridare prevalenza alla poesia sulla musica, a concentrare la vicenda, a ridurre il numero dei personaggi e ad usare un linguaggio semplice e chiaro. Piú vivace è, semmai, il melodramma giocoso (e di opere buffe come il Socrate immaginario del Galiani), specie quelli del già ricordato Giambattista Casti che, usufruendo del suo gusto satirico e parodistico del costume teatrale dell’epoca (secondo una tendenza che aveva già dato buoni frutti nel Gigli e nel Metastasio e quindi nel Goldoni) o di personaggi storici di altri tempi, creò una rappresentazione melodrammatica misurata e organica, percorsa da un forte estro inventivo, animata da una gustosa satira di motivi letterari, capace di assimilare motivi eroicomici tradizionali (Re Teodoro in Venezia, Re Teodoro in Corsica, Cublai gran Kan dei Tartari). E vivace ed elegante librettista fu Lorenzo Da Ponte, che preparò per la musica di Mozart vari testi (Nozze di Figaro, Don Giovanni, Cosí fan tutte) abilmente intrecciati di toni patetici e comici.

Anche nel campo della commedia non si hanno, in genere, apprezzabili risultati, ché troppo spesso la formazione di nuove commedie è troppo regolata da un inseguimento delle mode piú recenti e da una pura corsa al successo, come accade all’ex-gesuita bresciano Pietro Chiari (1711-1785), dichiarato avversario del Goldoni, farraginoso e spregiudicato assimilatore e divulgatore di nuove idee, infaticabile autore di romanzi e soprattutto di opere teatrali, che sono ora frettolose riduzioni e rifacimenti di fortunati romanzi stranieri, ora commedie in versi martelliani scritte in gara col Goldoni su temi esotici ora tragicommedie fitte di effetti spettacolari, ora, infine, commedie lacrimose, che egli abilmente insaporiva di spunti sociali. Nella direzione della commedia lacrimosa qualche miglior risultato raggiungeva semmai il romano Gherardo De Rossi, che, pure, teoricamente respingeva il nuovo genere. Sicché in questo campo, una maggior ricchezza e capacità di effettivi risultati, dovuti a un’inventività e ad un estro assai originali, mostra in questa seconda metà del secolo solamente Carlo Gozzi. Nacque questi in Venezia nel 1720 da nobile famiglia e nella formazione del suo carattere e dei suoi umori ebbero grave peso le condizioni dissestate della famiglia, cui egli cercò rimedio in varie attività commerciali o attraverso liti giudiziarie, sempre invece rifiutandosi di darsi a quell’attività di scrittore “prezzolato” e “mercenario” che avrebbe, nel suo giudizio, compromesso la sua libertà di scrittore e di giudice severo dei costumi contemporanei. Ché, infatti, all’insegna della polemica si svolse gran parte della sua attività e della sua vita, trascorsa, tolto un periodo da militare in Dalmazia, sempre a Venezia, dove morí nel 1806. Polemico egli fu prima di tutto contro la sciatteria e l’impurità linguistica di cui egli accusava la letteratura contemporanea; e la difesa dei “buoni scrittori” della tradizione italiana lo fece partecipe della puristica e tradizionalistica Accademia dei Grannelleschi. E acerbamente polemico egli fu contro il Chiari e il Goldoni, attaccando prima in scritti teorici questo per la sua commedia realistica e quello per le sue commedie lacrimose e romanzesche, quindi, accordatosi col capocomico Antonio Sacchi, approntando, fra il 1761 e il 1765, dieci “fiabe drammatiche”, nelle quali si proponeva di mostrare come si potesse conquistare il favore del pubblico ricorrendo ai procedimenti della vecchia commedia dell’arte e dando vita ad un’opera basata su argomenti fiabeschi e meravigliosi. In realtà a questi motivi egli mescolava un estro bizzarro e fantasioso, che è l’aspetto positivo di una tendenza in cui il meraviglioso appare spesso troppo cerebralmente inseguito e pertanto meccanico, e la stessa utilizzazione dell’elemento popolare è determinata dal compiacimento del conservatore verso la sanità e le virtú di obbedienza e fedeltà delle classi popolari intese come salvaguardia dell’ordine aristocratico e autoritario. Fra le sue fiabe vanno ricordate L’amore delle tre melarance, la Turandot e soprattutto L’Augellino belverde, in cui si ha un felice incontro di estro comico, di ironia e di satira, immessi in un ritmo dinamico dell’azione teatrale e resi per mezzo di una complessa mescolanza di linguaggi (dialetto, italiano parlato, lingua letteraria). Carlo Gozzi è anche autore di un poema eroicomico in ottave, la Marfisa bizzarra, composta tra il ’61 e il ’68, in cui la sua vivace carica polemica contro il proprio tempo si traduce in caricature – nei personaggi cavallereschi dell’opera – di figure di veneziani contemporanei e in genere in rappresentazione del degradato mondo settecentesco, privo, secondo il Gozzi, di vere virtú eroiche e nobili, troppo utilitarista e “ragionante”. Se questa satira antiilluministica e anticontemporanea ha una sua efficacia, pur senza il sostegno di una vera sicurezza stilistica, questa è raggiunta meglio nelle Memorie inutili (1797-1798), in cui le sue vicende autobiografiche sono delineate con un gusto tra sorridente (e anche con piú ariose aperture al ricordo) e grottesco (nella rievocazione di casi che hanno dell’assurdo, come nella descrizione del suo improvviso ritorno a casa, che trova inaspettatamente tutta illuminata e piena di una folla festosa). È qui che il Gozzi raggiunge le sue qualità piú fresche e vivaci.

5. Gasparo Gozzi

Il fratello di Carlo, Gasparo Gozzi, se condivise con lui (e certo con maggior coscienza e pazienza stilistica) le preoccupazioni di difesa della “buona” tradizione linguistica, non mancò di un maggiore affiatamento con le nuove esigenze civili e di un certo allargamento degli orizzonti culturali in direzione illuministica, quali si manifestavano, sia pure cautamente, anche a Venezia. Nato nel 1713, sposo assai giovane della poetessa Luisa Bergalli, fu presto impegnato in una febbrile attività di scrittore e di poligrafo, cui affiancò traduzioni, imprese editoriali e teatrali, sempre scarsamente fortunate, sicché quasi tutta la sua vita si svolse tra continue difficoltà economiche, finché ebbe l’incarico di sovrintendente alle scuole di Padova (1774), dove trascorse gli ultimi anni della sua vita. Morí nel 1786. Ben piú coerente del fratello nel dichiarato, amoroso culto dello stile, Gasparo Gozzi diede nel 1750 prova di una sua capacità di innovare una tradizione con le Lettere diverse, in cui l’ironia su se stesso e la rappresentazione vivace e sincera del suo animo si combinano con un’acuta attenzione al mondo contemporaneo e con una figurazione di vivaci quadretti di vita quotidiana. Con la Difesa di Dante (1758) egli intese rispondere al Bettinelli, disperdendo però un suo vivo senso dell’articolata unità del poema in un’accentuazione degli elementi bizzarri e fantastici. Sicché quella sua piú vivace forza di rappresentazione della vita contemporanea, preannunciata nelle Lettere, egli la versava nell’attività giornalistica, che lo vide impegnato tra il ’60 e il ’62 nella compilazione di tre giornali, il piú fiacco e farraginoso «Mondo morale», la piú agile ed estrosa «Gazzetta veneta» (che si riallacciava ad un’abbastanza autorevole e mossa tradizione di giornalismo veneziano), il piú impegnato, stilisticamente, «Osservatore veneto». Nella «Gazzetta» fiorisce cosí una sua minuta attenzione alla realtà cittadina, tra sfiducia nella filosofia e saggezza antisistematica, che dà vita ad un gusto di cronaca nutrito di humour, di estro e di moralità, aperto ad effetti che hanno talvolta del surreale, o talvolta si distendono in descrizioni di scenette mosse e vivaci (come nella descrizione della baruffa della calle al forno di San Palo), e anche ad acuti resoconti teatrali di commedie goldoniane. Laddove nell’«Osservatore veneto», ad una diminuita tensione cronachistica corrisponde un racconto dal taglio piú ampio, condensato spesso in un ritrattismo morale che riprende tradizioni classiche e cinquecentesche, sostenuto da una ricerca di edonistica e calma saggezza, che trova punte piú acri, ma certo minore sicurezza artistica, nei Sermoni in versi, che tendono (pur cosí lontani dalla ben diversa forza di un Parini) ad una rappresentazione satirica della vita galante e frivola della società nobiliare veneziana del tempo.

6. Memorialisti e viaggiatori

S’è già accennato ai risultati notevoli, per qualità e incisività della scrittura e per duttile combinazione di estro fantastico e di satira, che nel campo della memorialistica ottenne Carlo Gozzi. Un campo, questo, assai praticato nel secondo Settecento: basterà ricordare le Memorie di Lorenzo Da Ponte (nato a Ceneda nel 1749 e morto a New York nel 1838), già ricordato come scrittore di melodrammi, il quale distende in quest’opera le aggrovigliate vicende della sua vita (trascorsa in un continuo movimento tra il Veneto e Venezia prima, quindi a Dresda e a Vienna come poeta teatrale, poi a Londra, impegnato in attività commerciali, editoriali e teatrali, infine, dal 1805, a New York, dove fu anche insegnante di italiano) in una narrazione spesso discontinua, e tuttavia efficace quando offre ritratti ironici e pungenti o agili figurine disegnate sullo sfondo di ambienti gustosamente percepiti, o le Memorie di Filippo Mazzei, interessanti soprattutto documentariamente (per la descrizione delle rivoluzioni americana e francese e della crisi del regno di Polonia, delle quali fu spettatore), o i Mémoires di Giuseppe Gorani, anch’essi interessanti per il vasto affresco dell’Europa settecentesca che offrono, e soprattutto quella Histoire de ma vie che Giacomo Casanova (1725-1798) stese da vecchio nel castello di Dux in Boemia. Questo singolare scrittore ricrea vivamente nel racconto, cui impone un alacre ritmo narrativo, quel senso edonistico della vita che animò tutta la sua esperienza vitale, vissuta con una foga formidabile, con una spregiudicatezza intellettuale che lo porta ai contatti piú diversi, ora con persone di alto livello sociale e intellettuale, ora con avventurieri, e che trova particolare forza (anche se alla fine un po’ monotona e ossessiva) nella libertina descrizione delle sue innumerevoli avventure amorose.

Su un piano diverso, piú cauto e piú attento ad una resa informativa sicura, si colloca la produzione letteraria dei viaggiatori, che, come si è visto, già alla fine del Seicento prendeva un carattere piú scientifico, confermato poi, per esempio, dai Viaggi in Russia di Francesco Algarotti. Saranno ora da ricordare in questa direzione le Lettere sopra l’Inghilterra, la Scozia e l’Olanda del toscano Luigi Angiolini (1750-1821), molto efficaci nel loro insieme, in quanto anche le parti piú minutamente documentarie valgono come preparazione a pagine piú illuminanti sui costumi, sulle istituzioni della libertà inglese che l’Angiolini ammira pur avvertendone i limiti e notandone certi contrasti, sulle forme della vita religiosa delle sette protestanti, in giudizi e ritratti vividi di personaggi e di situazioni. Distese invece in una prosa limpida e semplice sono le narrazioni di viaggi di Lazzaro Spallanzani di Scandiano (1729-1799), insegnante di scienze naturali nell’Università di Pavia, e soprattutto i suoi Viaggi alle Due Sicilie e in alcune parti dell’Appennino (1792-1797), regolati come sono da un ritmo calmo, schivi di ogni effetto coloristico, illuminati da una luce pacata, percorse dal piacere di un’intelligenza ordinatrice e dipanatrice di osservazioni molteplici, che comunicano nozioni sicure e confutano errori e pregiudizi. Questo tipo di letteratura è assai interessante anche per la determinazione del gusto paesaggistico nuovo in senso pittorico e sentimentale, che porterà al preromanticismo: e lo vedremo tra poco nel caso significativo di Aurelio Bertola.

7. La critica: Bettinelli e Baretti

Gli effetti della cultura illuministica si fanno sentire positivamente anche nel campo della critica letteraria, animando questa di nuove prospettive, di una diversa esigenza di consapevolezza e di novità, tali da preparare il terreno ad istanze illuministico-sensistiche e poi preromantiche. Pertanto, se una impostazione prevalentemente erudita sostiene l’opera di Giammaria Mazzuchelli (1707-1765), Gli scrittori d’Italia (monumentale opera bibliografico-critica in cui gli scrittori italiani erano ordinati alfabeticamente e di cui uscirono sei volumi fino alla lettera B), e anche la Storia della letteratura italiana (ampliata e corretta tra il 1772 e il 1794) del gesuita bergamasco Girolamo Tiraboschi (1731-1794), opera preziosa per la quantità di notizie che offre, ma anche non priva di un certo tentativo di raccordo tra letteratura e cultura, un posto di notevole importanza nello svolgimento di tali prospettive occupano Saverio Bettinelli e Giuseppe Baretti.

Il Bettinelli, di cui s’è già fatto cenno come autore di tragedie, nacque a Mantova nel 1718 e, entrato nell’ordine dei gesuiti, si dedicò all’insegnamento nelle scuole dell’ordine a Brescia, Bologna, Venezia, e soprattutto a Parma, viaggiando spesso in Italia e in Europa. Nel 1759 lasciò Parma anche in conseguenza delle polemiche suscitate dalle Lettere virgiliane e passò a Verona, quindi a Modena, dove fu professore di eloquenza nell’Università, e infine a Mantova, dove morí nel 1808. Quella del Bettinelli è una personalità assai complessa, ricca di molteplici interessi, nutrita di cultura illuministica, sostenuta da un ingegno lucido e conseguente, aperta su prospettive sentimentali e preromantiche, e tuttavia non priva di limiti e di remore. Queste remore si possono riscontrare anche nel suo piú forte accendersi per gli aspetti della cultura illuministica, come si può vedere nel Risorgimento d’Italia (elaborato fino al 1772), che alla prospettiva voltairiana di una storia non solo politica ma anche culturale e all’intuizione dell’importanza della storia italiana dopo il Mille associa l’idea di un dispotismo illuminato e addirittura quella di una rinnovata missione della Roma papale. Ma la misura della complessità bettinelliana e della sua capacità di partecipare al movimento di rinnovamento culturale si ha soprattutto nelle Lettere virgiliane, pubblicate nel 1757 di seguito ad una raccolta di Versi sciolti di Frugoni, Algarotti e Bettinelli stesso. Qui egli difende, innanzi tutto, l’uso del verso sciolto, libero da rima, perché meglio capace di dipingere gli oggetti in «modo dilicato» e insieme reale, di adeguarsi al movimento poetico, di adattarsi al piacere e al consenso di tutti. Lo sostiene un ideale di poesia moderna, sorretta da una cultura illuministico-classicistica e un desiderio di lotta contro l’arretratezza culturale e letteraria, che genera il ben noto attacco contro Dante e la Divina Commedia, trovata (da Virgilio che discorre in Eliso con altri antichi e invia ai componenti dell’accademia romana dell’Arcadia un resoconto di tali discorsi) poema oscuro, irregolare, pieno di superstizione e di filosofia scolastica, prodotto di tempi barbari e da ridurre in due o tre canti veramente poetici. Fra questi egli esalta quelli di Francesca e di Ugolino, sentendo qui l’intima forza poetica di Dante: il che prende maggior risalto di fronte alla condanna della vecchia letteratura arcadica-cruscante. L’illuminismo piú scoperto e piú duro s’apre ad una percezione di elementi disposti sulla via del sensismo e del sentimentalismo, sicché il Bettinelli a suo modo partecipa al passaggio dall’illuminismo al sensismo, dal classicismo illuministico al preromanticismo, specie nell’Entusiasmo delle belle arti (1769), dove il Bettinelli esalta la natura e il sentimento, rivendica l’importanza della sensibilità e dell’immaginazione, afferma decisamente la superiorità del cuore, del genio, del sublime sull’ingegno e sulla sapienza artistica. Aperture che piú tardi il Bettinelli restrinse molto, ponendosi dinanzi a molta nuova poesia, per esempio dinanzi all’Alfieri e al Foscolo, su posizioni tradizionalistiche e reazionarie, connesse alla sua stessa condizione ed educazione gesuitiche, riaffiorate piú ampiamente nei suoi ultimi anni.

Anch’essa non priva di contraddizioni, ma certo piú vigorosa, appare nel passaggio tra illuminismo e preromanticismo la personalità di Giuseppe Baretti. Il quale, irrequieto, polemico, intollerante, ebbe vita movimentata: nato a Torino nel 1719, a sedici anni, per contrasti col padre, si recò a Guastalla, presso uno zio, e qui cominciò, mentre faceva lo scrivano di un commerciante, gli studi letterari, continuati poi a Torino, a Venezia e a Milano (dove fece parte delle accademie dei Granelleschi e dei Trasformati). Piú tardi sperò di ottenere a Torino la cattedra del Tagliazucchi, che era stato suo maestro: ma fallita questa speranza e verificato il contrasto tra il suo carattere e la mentalità chiusa del suo paese, andò a Londra, dove rimase dal 1751 al ’60, inserendosi molto bene nell’ambiente culturale inglese e stringendo amicizie importanti come quella con Samuel Johnson, che molto peso ebbe nella formazione di una sua prospettiva piú aperta e piú robusta, nutrita di cultura europea. Nel ’60, con un viaggio attraverso il Portogallo e la Spagna descritto nelle Lettere familiari, tornò in Italia, dove, nel ’63, diede avvio, a Venezia, alla sua maggior impresa giornalistico-letteraria, «La Frusta letteraria». Ma per la violenza che la caratterizzò e per le inimicizie che gli suscitò contro, la continuazione della rivista fu proibita dal governo veneziano. Il Baretti cercò allora di farla continuare per qualche mese ad Ancona: ma anche questo tentativo fallí, ed egli nel ’66 ritornò a Londra, dove rimase fino alla morte (1789), circondato dall’amicizia dei maggiori uomini di cultura inglesi e occupato nella composizione di varie opere.

L’impasto di buon senso, di gusto del concreto, di anticonformismo (che indica come non manchi in lui, nella sua lotta contro una letteratura oziosa e accademica, un raccordo di fondo con la cultura illuministica) e di risentimenti bizzarri, di spirito di contraddizione, di remore moralistiche e conservatrici, che costituisce la personalità del Baretti, trovò un forte impulso nel contatto col Johnson che proponeva una letteratura antipedantesca, naturale, semplice e vigorosa. E il Johnson influí su di lui non solo per la definizione di un certo tipo di critica, ma anche per la formazione di una scrittura che nelle Lettere familiari, pur tra ritorni a momenti piú fastidiosamente retorici, dava prove sicure di vivacità e di realismo, nella descrizione di tipi umani vivaci, di scene festose e movimentatissime come sono quelle del ballo di Elvas o dei ragazzini di Meaxaras. Ma è soprattutto nella «Frusta letteraria» che il Baretti dà pienamente la misura di sé e anche della complessità accennata della sua personalità, che si riflette mirabilmente in Aristarco Scannabue, il personaggio che il Baretti finge autore della «Frusta», vecchio e vegeto soldato, che ha corso il mondo e che ne ha tratto un carico di esperienze, spregiatore della letteratura accademica, conoscitore della cultura europea, intollerante di ogni pedantismo e pigrizia intellettuale ma anche d’ogni eccesso di mode esterofile che perdano di vista la concreta condizione e la tradizione del proprio paese. Aristarco ha un interlocutore, Don Petronio Zamberlucco, che impersona il vecchio letterato italiano, infatuato scioccamente di tutto ciò che è italiano; egli offre ad Aristarco il destro per attacchi violentissimi contro l’Arcadia e il persistente, ozioso verseggiare che le è seguito, contro l’antiquato boccaccismo di molta prosa moderna, perfino contro il Goldoni, giudicato provinciale e linguisticamente sciatto. Gli scrittori, per contro, che il Baretti esalta sono il Cellini, per la sua naturalezza antipedantesca, l’Ariosto per la sua forza sentimentale e fantastica e soprattutto Shakespeare, cui nel 1777 dedicò un Discours per difenderlo dalle accuse di Voltaire (che lo aveva trovato poeta solo in certi luoghi e nel resto solo rozzo e impoetico), superando qui le sue vecchie remore tradizionalistiche e imboccando piú audacemente la via del preromanticismo nel sentimento della naturalità geniale di Shakespeare, della sua forza selvaggia o della sua intraducibilità nelle lingue neolatine, e aprendosi cosí a intuizioni nuove sul carattere originale della poesia e della lingua. Sicché questo Discours per compattezza, slancio, ricchezza di intuizioni feconde può dirsi veramente il capolavoro del Baretti.

8. Il Neoclassicismo e la lirica della seconda metà del Settecento

Un’importante linea dello svolgimento del gusto del secondo Settecento è rappresentata dal neoclassicismo, che si affianca a quelle rappresentate dall’illuminismo prima e dal preromanticismo poi. Già si è visto come la spinta illuministica potesse inserirsi a tratti in un orizzonte classicistico in una figura come il Bettinelli: e piú indietro nell’Algarotti avevano agito utilmente elementi classicistici, come ancora essi comparivano nella poesia didascalica. Del resto la spinta classicistica si poteva bene accordare con elementi edonistico-sensistici, in una versione mondana della spregiudicatezza illuministica, in una figura come il bolognese Ludovico Savioli (1729-1804), che ebbe cariche pubbliche, fu deputato della Repubblica Cisalpina e quindi professore di diplomatica. Nella sua produzione poetica, principalmente gli Amori, troviamo unito un facile sensismo, una fiducia, sia pure un po’ superficiale, in una civiltà tutta mondana, un gusto miniaturistico che fa di lui il rappresentante piú tipico della componente classicistico-rococò della cultura italiana di metà secolo. E l’importanza di questa direzione del gusto può essere confermata dall’interesse contemporaneo per le stampe raccolte nelle Antichità di Ercolano esposte, in cui il classicismo si congiunge ad un vero culto per la grazia. E un omaggio al gusto miniaturistico veniva anche dal Winckelmann che esaltò i cammei della famosa Collezione Stosch. Nel nome di Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), autore di una Storia dell’arte dell’antichità (1764), l’elemento classicistico ebbe una svolta decisiva: nell’ideale di un’arte ispirata ai modelli classici e specialmente greci, sospinta dall’esigenza di un rinnovamento della bellezza classica nel mondo moderno, appassionatamente nostalgica di quei tempi perfetti e perduti, esso acquista una eccezionale consapevolezza, disponendola in una prospettiva estetico-pragmatica nutrita di un senso religioso dell’antichità come tempo di perfetta bellezza e di sentimento eroico e saggio della vita. Il gusto neoclassico ebbe in Italia un alto rappresentante in Francesco Milizia (1725-1798), autore fra l’altro di Memorie degli architetti antichi e moderni, di un Dizionario delle belle arti del disegno, che nel culto della “bellezza ideale” portò una passione lucida e violenta, che gli fece esaltare la grandezza dei Romani per l’espressività delle loro statue e per la maestosità dei loro edifici ammirati nella loro attuale condizione di “superba” visione.

Ma il gusto neoclassico – che ebbe piú tardi svolgimenti e influssi ben piú vigorosi nella poesia del vecchio Parini – informa di sé anche molta lirica della seconda metà del Settecento, che spesso muove dal modello classicistico-rococò offerto dal Savioli verso una piú decisa corrispondenza cogli ideali etico-estetici neoclassici. Ciò che si può rilevare in vari poeti, specialmente emiliani, come Luigi Cerretti (1738-1808), Agostino Paradisi (1736-1783), Giovanni Paradisi (1760-1826), Francesco Cassoli (1749-1812), forse il maggiore di questi poeti per la lucidità e il vigore con cui tradusse in poesia i suoi ideali di perfezione morale e artistica modellata sui classici, mentre altri, come Carlo Gastone Della Torre di Rezzonico (1742-1796) e Angelo Mazza (1741-1817), fondarono anche sull’esempio del Frugoni piú vaticinante e ambizioso un loro esercizio lirico animato da una tensione ardita ad un neoclassicismo grandioso.

In questo campo della lirica va poi ricordato Giovanni Fantoni (1755-1807), che dopo un’esperienza preromantica piú superficiale si volse ad una poesia celebrativa appoggiata all’esempio oraziano, che se rimase confusa e retoricamente disposta per difetto di ispirazione, valse a proporre temi civili consonanti con uno svolgimento ideologico da riformismo illuministico a posizioni democratiche e repubblicane. In una posizione generalmente piú indipendente rispetto alle linee di svolgimento ora accennate, anche se variamente compromessi con esse, si collocano, a metà del secolo, Alfonso Varano (1705-1788), autore di tragedie, e soprattutto di Visioni sacre e morali, in cui si trova una sensibilità inquieta, non priva di stimoli per le successive tendenze romantiche, ma che egli mortifica spesso imponendole un orizzonte tetro e ossessivo, schivo di ogni misura classicistica fino ad ambigui ritorni di fosca sontuosità barocca in direzione dell’orrido e del macabro, e Jacopo Vittorelli (1749-1835), ideologicamente antiilluminista, ma in realtà inserito nella linea che dalla Arcadia sale all’illuminismo e al neoclassicismo, ch’egli arricchisce di una musicalità maturata dalla sensibilità idillico-elegiaca preromantica.

9. La letteratura preromantica

Nell’urto tra tendenze neoclassiche e preromantiche, queste ultime vengono sempre piú rafforzandosi negli ultimi decenni del secolo. Si moltiplicano cosí gli argomenti sepolcrali, notturni, rovinistici, idillico-elegiaci, stimolati sempre piú dalla abbondante introduzione in Italia di poesia straniera nordica su tali temi, dalle Notti dell’inglese Young agli Idilli dello svizzero Gessner, al Werther di Goethe, e anche dalla maturazione della componente sensistico-sentimentalistica dell’illuminismo in una sensibilità piú inquieta. In questa prospettiva un singolare posto hanno le Notti di Young, tradotte piú volte in italiano e amate proprio per il loro fondo tetro e malinconico, per la loro atmosfera pessimistica e notturna, per la loro ossessione della morte e della tomba, che venivano a sconvolgere le posizioni piú equilibrate e l’educazione piú composta e prudente dei letterati italiani tradizionalisti. Ma un’importanza decisiva per la definizione del gusto preromantico italiano – e anche per il peso che ebbe, insieme ad altre componenti culturali, storiche e letterarie, nella formazione del primo romanticismo italiano – ha la traduzione cesarottiana delle Poesie di Ossian, falsificazione che lo scozzese James Macpherson presentava come traduzione moderna di un immaginario bardo caledonico del terzo secolo dopo Cristo. Melchiorre Cesarotti nacque a Padova nel 1730 e in questa città, a parte un soggiorno a Venezia e un viaggio a Roma, visse sempre, come insegnante di retorica nel seminario e poi professore di greco e di ebraico nell’Università, e ivi morí nel 1808. Moltissimo scrisse (le sue Opere comprendono quaranta volumi), ma la sua importanza è legata principalmente al Saggio sulla filosofia delle lingue e alle traduzioni ossianesche, anche se va detto che tutta la sua personalità, ricchissima di stimoli diversi, che vanno dall’eredità arcadica ad un’acquisizione di classicismo, di illuminismo e perfino di vichianesimo, ha un centro vivissimo nel suo senso moderno della poesia e della lingua tra fiducia illuministica nella ragione e ricerca della genialità naturale e magari barbarica. Sicché, se la sua doppia traduzione dell’Iliade, in versi e in prosa, finiva col rivestire di abiti, modi, forme troppo settecentesche la poesia omerica, egli poteva pervenire, tra il Saggio sulla filosofia del gusto e quello linguistico sopra citato, ad un vivace sentimento della libertà delle lingue (pur distinto dalla eccessiva licenza esterofila degli scrittori del «Caffè»), del loro arricchimento e sviluppo, della sterilità di una ricerca della loro “purezza” originaria, della loro creatività e individualità, raccogliendo elementi dell’antipedantismo illuministico, volgendolo ad una valutazione dell’originalità della poesia, in una prospettiva moderna capace di comprendere e penetrare la poesia di ogni tempo. Cosí il Cesarotti si mostra sicuro della grandezza e novità della poesia ossianesca e si dispone ad offrirla al pubblico dei letterati italiani non nascondendosi la difficoltà dell’impresa e cercando di venire incontro alle loro esigenze tradizionali attraverso smussamenti, tagli, addolcimenti e viceversa rilievi piú enfatici. Ne veniva fuori una versione animatamente poetica, che immetteva nella letteratura italiana atteggiamenti sentimentali, problemi, moduli poetici nuovi, nella resa del paesaggio nordico – ora dominato dall’orrore, ora malinconicamente disposto –, dell’immagine della morte – ora collegata a fosche entità naturali, ora vista come meta di eroici duelli –, della nostalgia e della “rimembranza”.

Nella sempre maggior prevalenza di tendenze preromantiche è caratteristico lo svolgimento di Alessandro Verri, già intuibile del resto nella tensione sensistica e nel paradossale contrasto tra cuore e ragione che lo distinguevano dagli altri collaboratori del «Caffè». Nei suoi anni maturi si registra infatti in lui un passaggio dall’impetuosa polemica contro pedanti e tradizionalisti ad una posizione di classicista tendente al grandioso neoclassico winckelmanniano, non senza però l’affiorare di elementi preromantici cupi e pessimistici di origine younghiana. Su questa base il Verri realizzò da una parte alcuni tentativi drammatici, influenzati anche dal grande esempio shakespeariano, e dall’altra e soprattutto si dedicò alla composizione di alcuni romanzi, dei quali piú notevoli sono Le avventure di Saffo (1782), aspra vicenda di infelicità narrata con un gusto fortemente preromantico-neoclassico, cui egli adibisce uno stile composito tra costruzione classicheggiante e sensibilità piú inquieta, e le Notti romane al sepolcro degli Scipioni (piú tarde), dove quelle tendenze maturano in una sorta di “romanzo-visione-saggio”, rappresentazione nostalgica dell’antica civiltà romana, non priva di impegni ideologici di carattere conservatore e reazionario, attuata in un accordo del lugubre, del grandioso e del patetico, su uno sfondo di orrore, di ombre, di rovine. Qui tutto, la narrazione, come la meditazione e la visione, realizza l’irrequieta e dolente tensione che presiede all’impeto preromantico-neoclassico del Verri.

In una direzione assai diversa fonde le tendenze preromantiche e quelle neoclassiche il riminese Aurelio de’ Giorgi Bertola (1753-1798), professore di storia e geografia nell’Accademia di Marina di Napoli prima, e poi di storia universale a Pavia. Su una base di cultura illuministica (rivelata dalle sue Lezioni di storia e da tre libri Della filosofia della storia), attraverso un’acquisizione di testi preromantici e soprattutto dell’idillismo gessneriano, egli supera una sua prima tentazione di poesia notturna younghiana (le Notti clementine, 1775) verso toni piú patetici ed elegiaci, verso immagini non fosche e ossessive, ma tenere e pacate. Preromanticismo e neoclassicismo tendevano in lui ad un accordo su un piano di tenerezza, di lieve pittoricità, di ritmo melodico, come mostrano le sue poesie, tra cui la canzonetta Partendo da Posillipo. La stessa sua esplorazione della letteratura tedesca (Idea della poesia alemanna, 1779) era condotta su di una linea gessneriana, nell’immagine di una Germania laboriosa, pacifica, sentimentale, civile e primitiva insieme. Tutti elementi che si trovano radunati nel descrittivismo patetico-pittorico e nella sensibilità raffinata, espressa anche in una originale forma di prosa poetica, del Viaggio sul Reno e ne’ suoi contorni (1795).

Una piena sintesi di sensibilità preromantica e di gusto neoclassico si ha infine nell’opera di Ippolito Pindemonte, veronese, nato nel 1753, vissuto tra la città natia e una lunga serie di viaggi a Roma, a Napoli e in Sicilia e poi in Francia, Inghilterra e Germania e morto a Verona nel 1828. La sua personalità aristocratica, fine, moderata, capace di equilibrare quelle spinte diverse, si esprime con grande finezza nelle Prose e poesie campestri (scritte tra l’84 e l’88), nelle quali il blando preromanticismo pindemontiano, concretato nel soave e sensibile mito-sentimento della «melanconia», usufruisce del preromanticismo piú affabile e piú gentilmente attento alla piccola realtà quotidiana. Si realizzava cosí, in una musica pensosa di accordi di stati d’animo malinconici e di paesaggio tenero e suggestivo, il suo «nuovo stil grave», che unisce anche nelle Prose campestri pacata moderatezza e punte piú nuove di sensibilità. In seguito si accentuò in lui una tensione neoclassica, che nelle Epistole in sciolti (1805) si concilia agevolmente ed elegantemente con la sua malinconica vena preromantica, nell’orizzonte di una nuova sintesi preromantica-neoclassica quale si può trovare nell’epistola A Elisabetta Mosconi, e perfino nei Sermoni (1819), che tuttavia rappresentano un’involuzione senile, piú fredda e classicistica. Né andrà dimenticata la sua versione dell’Odissea omerica, che realizzava in direzione diversa la sua particolare sintesi preromantico-neoclassica.